Interviste

L’attualità della lettura del giorno prima deve essere, per sua natura, inattuale.
Conversazione tra Luca Beatrice e Roberto Floreani



Luca Beatrice - Perché la Città ideale? E’ una citazione del filosofo Tommaso Campanella oppure un luogo utopistico in cui far nascere e sviluppare l’arte?


Roberto Floreani - Il riferimento è diretto alla tavoletta rinascimentale conservata a Urbino, titolata La Città ideale, che ha il sublime fascino del capolavoro e dell’anonimato dell’autore, allo stesso tempo. Senza attribuzione, diventa a maggior ragione, un’icona assoluta di Misura, Bellezza e Proporzione, con una forte suggestione di natura spirituale o almeno metafisica. Penso che questi concetti siano trasferibili anche all’opera d’arte contemporanea, soprattutto dal versante astratto.


Hai pensato questa mostra a Verona come una via di mezzo tra una serie di lavori nuovi e alcune opere di repertorio. Quali sono le novità più evidenti nel tuo lavoro e quali gli elementi di maggior continuità con una ricerca che va avanti da oltre trent’anni?


Il progetto di Verona segue le modalità abituali del mio lavoro: per ogni personale, fin dagli inizi, dalla metà degli anni ’80, ho sempre pensato alla mostra individuale come a un progetto nuovo, che dovesse mantenere ben visibile la traccia di quello precedente, per ribadire il concetto della continuità e dello sviluppo della ricerca. A Verona, avendo a disposizione i vastissimi spazi del piano nobile della Gran Guardia, diviso in cinque grandi saloni, ho destinato quello più grande e immediatamente fruibile dallo spettatore al nuovo progetto, La Città ideale, appunto, e gli altri quattro ad altrettanti periodi fondativi del mio lavoro, relativi alle mostre personali in spazi museali, Biennale di Venezia del 2009 inclusa. Un excursus di oltre quindici anni, dove appare evidente la matrice comune della ricerca sulla materia, combinata con le strutture geometriche. Dal 2003, data della sua prima presentazione al Museo Revoltella di Trieste (Ritorno all’Angelo) si può vedere con chiarezza tutta l’evoluzione del Concentrico, elemento divenuto identificativo del mio lavoro, nelle sue varie declinazioni.


A proposito di Venezia, cosa resta oggi della nostra esperienza in Biennale nel 2009 e soprattutto che impatto pensi abbia avuto il tuo lavoro davanti a un pubblico internazionale?


La prima risposta, la più naturale, è legata al mio essere veneziano, che è più o meno come chiedere a Francesco Totti cos’ha provato quando ha esordito all’Olimpico, dopo aver fatto, da bambino, il raccattapalle, a bordo campo, nello stadio della sua città: la partecipazione alla Biennale mi ha portato un senso di tranquillità, di appagamento personale, di compiutezza. Ho pensato a mia madre e alle visite con lei ai Giardini, fin da piccolo. Della Biennale mi resta anche il desiderio di ciò che non è stato. Sono sempre stato attratto dalle foto storiche di gruppo, dal rendere l’esperienza artistica anche collettiva, costruttiva, che duri nel tempo nei rapporti interpersonali. Di quell’esperienza mi resta vivido il pranzo che facemmo, tutti insieme, il 16 gennaio, in occasione del primo sopralluogo carbonaro in un’Arsenale dismesso, all’interno di un Padiglione fantasma, ancora di là da venire. Occupata poi un’intera osteria ai Giardini, svuotammo anche diverse caraffe di vino e si uscì, quieti, alla chetichella all’imbrunire, in una Venezia ovattata, totalmente immersa nella nebbia. Mi pareva di respirare quell’aria comune di cui mi aveva parlato, illo tempore, Giuseppe Santomaso, nel suo studio a Venezia. Il dopo, del tutto asettico, somigliava invece alla disillusione che mi aveva trasmesso un Alberto Burri alla fine, in un intenso, selettivo colloquio che ebbi nel suo eremo sopra Città di Castello e di cui vado molto fiero, soprattutto per la considerazione che aveva nei miei confronti. La mia presenza, da quest’anno, nei libri di testo per le scuole medie, affiancato al suo nome, ha quindi un sapore del tutto particolare. L’esperienza internazionale l’ho sentita sul mio lavoro dall’interno, con un aumentato senso critico, ma anche con una consapevolezza diversa. Quanto agli esiti, avevo già esposto a livello pubblico internazionale con due personali in altrettanti musei tedeschi nel 2007: penso che nell’economia globale dell’arte di oggi, i risultati siano direttamente proporzionali al peso di un Paese e delle sue gallerie. In quest’ambito l’Italia non conta molto, se non con pochissime individualità.


Torniamo ai nuovi dipinti. Per la prima volta hai usato il Blu Klein, o IKB, ma non è tanto un omaggio a un colore così particolare quanto al rimando a Yves Klein maestro di arti marziali, un artista che credeva nella disciplina del corpo e della mente.


Pratico arti marziali da oltre cinquant’anni e sono approdato da più di venti al Tai Chi Chuan: marziale e meditativa allo stesso tempo. Trovo nella biografia di Klein molte analogie da questo versante, inclusa la decisione di diventare istruttore, finendo con il “praticare” la mia esistenza, in una sintesi circolare di corpo e mente, o in una disciplina, così come tu la chiami. La mia tavolozza, fino a oggi, ha aggiunto colori con molta parsimonia e, a parte le declinazioni dell’arancio, o del crèmisi della serie Alchemica, non si era mai spinta su tonalità distintive, come il Blu Klein, appunto. Da questo colore mi sembra di cogliere con chiarezza quanto lo stesso Klein intendesse comunicare: interiorità in valore assoluto, il colore che diviene concetto, creando una forte predisposizione all’ascolto.


E le forme antropomorfe? Queste particolari silhouettes che ricordano persino i cartoon, da dove arrivano?


Chissà…forse le ho chiamate Jump, salti, proprio per questo. In realtà sono l’approdo di una ricerca che procede da un po’ di tempo, dove la superficie pittorica della tela, a volte veniva ridotta da linee curve sui lati, delimitando delle aree distinte al suo interno. La combinazione di linee curve e strutture circolari, caratteristiche del mio lavoro da sempre, ha finito con il comporre una struttura combinata autonoma. I Jumps mi danno un enorme senso di energia e libertà e mi fa piacere che tu vi abbia identificato una sorta di proto-cartoon.


A proposito di novità, non so se sia la prima volta, ma qui ti cimenti anche con la scultura, che non è solo traduzione tridimensionale di una superficie ma anche conoscenza di materiali e linguaggi. E poi le carte fatte a mano sono per caso una riscoperta di una dimensione “artigiana” del fare che svincola la pittura astratta da una certa ripetizione meccanica…


Sì, è la prima volta che presento strutture autonome a centro sala, che non siano installazioni site-specific, già realizzate in numerosi progetti precedenti. Le sculture bifronte, in ceramica metallizzata a spessore, sono una novità assoluta e rispondono al mio desiderio di sempre di dare volume al mio lavoro. Concettualmente, ho cercato di invertire il senso compiuto dei materiali, conferendo asetticità metallica alle sculture realizzate in terra, rispetto alla collaudata “terrosità” delle opere su tela, realizzate con l’impiego di materiali primari. Fino a oggi la tridimensionalità della materia, quello che ritengo essere il corpo della pittura, poteva soddisfare il mio desiderio volumetrico, abbinato al cospicuo spessore dei telai: con la scultura realizzo compiutamente ciò che ormai era diventato necessità, rispondendo anche alla mia concezione della scultura come continuità tematica dalla pittura. Sono trent’anni che realizzo progetti personali partendo dalla valutazione architettonica degli spazi che li dovranno contenere e la scultura mi risolve definitivamente questo rapporto arte-spazio-architettura. Ecco la ragione in più per titolare questo progetto La Città ideale. Quanto alle carte, realizzate a mano con struttura in tessuto a immersione, rispondono alla centralità della materia nella mia ricerca pittorica. Per quanto riguarda la riscoperta di una sorta di “artigianalità”, credo possa essere una tendenza diffusa, ma, nel mio caso, la complessità della tecnica e l’estrema manualità della costruzione dell’opera (intelaiatura inclusa), sono sempre state componenti fondanti del mio lavoro, fin dagli esordi. Tecnica e “corpo della pittura” materica che, probabilmente, m’impediscono, ab origine, di cadere in quella che tu hai chiamato ripetizione meccanica.


Parli spesso di spiritualità nell’arte, o quanto meno di messaggi spirituali. A cosa sono affidati? Come fa la pittura oggi a tradurre concetti così astratti?


L’argomento ha una tale portata che è indispensabile soppesare bene le parole, per evitare inutili e pericolose presunzioni. Penso che l’opera possa anche essere un veicolo per un messaggio di natura spirituale, così come lo può essere una passeggiata, l’identificazione di una località, anche orribile, ma che consideriamo d’elezione, il rapporto subliminale instaurato con un animale domestico o una sequenza di arti marziali, dove, per attimi, si può arrivare a cogliere una sorta di sintesi tra corpo, mente e spirito. La spiritualità è quindi a disposizione per essere frequentata, non è un’entità distante. Penso serva solo il desiderio di cimentarcisi e un lavoro costante per riuscirci. Fin dallo Spirituale nell’arte di Wassilij Kandisnkij nel 1912, l’astrazione ha sempre guardato con molta attenzione a questo aspetto, fino ai giorni nostri con Peter Halley, Sean Scully o Lawrence Carroll, ricordando anche l’esperienza di Ettore Spalletti, autentico sacerdote del colore. Probabilmente la pittura non traduce direttamente questo concetto, ma è sicuramente un potenziale veicolo per poterci arrivare. Se diamo retta alle definizioni tu sei un pittore astratto. Un linguaggio che, soprattutto in Europa, vive fasi alterne, mentre in America continua a essere molto praticato. Ti senti a tutti gli effetti un astrattista? E perché? Paradossalmente, chi pratica un’attività dall’interno è il meno interessato alle definizioni, che sono indispensabili per chi ne parla da fuori. Per quanto mi riguarda mi ritengo sicuramente un astrattista, perché amo la semplicità nella definizione degli argomenti, per dedicarmi alla loro complessità nel praticarli. Ci credo perché sento di far parte, nella continuità, del meraviglioso progetto che, a partire da quegli anni ‘10 che cambiarono il mondo, decise d’interpretare la realtà attraverso il non riconoscibile, autentica, rivoluzionaria novità del Novecento; è un percorso che si snoda da allora e che, anche oggi, ha splendide, silenziose declinazioni in tutto il mondo. Quanto alla ricerca astratta, ti conosco come interessato e appassionato di esperienze soprattutto figurative, pur declinate nelle infinite possibilità espressive. Ti chiedo: di fronte al mio lavoro, improntato tradizionalmente sulle suggestioni che possono provenire dal non-riconoscibile, provi sensazioni differenti? O che provengono da aree diverse della tua sensibilità? Quella disciplina mentale di cui parlavi e che riconosci nel mio lavoro, ti apre a nuove necessità di conoscenza? E’ interessante che a questo punto della nostra conversazione sia tu a porre una domanda a me. A me piace molto la pittura e se dovessi compilare un’ipotetica classifica delle arti sarebbe certamente al primo posto. Che poi sia astratta o figurativa, ideale o realistica, a mio avviso cambia poco, anzi l’ideale si raggiunge quando i due linguaggi si compenetrano per restituire una visione del mondo inedita. Più che di sensazioni di fronte a un quadro si dovrebbe parlare di stimoli intellettuali, perché l’arte visiva da sola non basta e mi interessa quando le cose si incrociano a tal punto da portarti verso un altrove. In te apprezzo da una parte logica, rigore e disciplina, dall’altra il fatto che il tuo è veramente un lavoro aperto e relazionale, per cui davanti a un Floreani si finisce inevitabilmente per parlare poco del quadro e molto di tutto ciò che sta intorno. E a questo proposito ecco la mia ultima domanda. Nonostante tu abbia sempre insistito su un certo isolamento della pittura, fuori dalle mode e oltre gli stili, hai però inseguito un ruolo nel dibattito culturale, praticando diverse arti tra le quali il teatro; ti piace la scrittura saggistica, insomma ti va di dire la tua. Ti consideri dunque un artista del proprio tempo? E perché tutte queste avventure oltre contesto? Il contesto è uno solo, articolato. E’ la mia visione del mondo, esplicata con metodo nella pittura, nella fisicità nelle azioni teatrali e nell’interpretazione della storia che ci ha preceduto: una eterogenietà che mi dona l’indispensabile consapevolezza nel dire e nel fare. La sintesi di questo, è la mia grande passione per il Futurismo, avanguardia multidisciplinare per eccellenza, dove l’inventore, teorico, promotore, sostenitore fu un avvocato, Filippo Tommaso Marinetti. Rivendico all’artista l’indispensabile funzione sociale di partecipazione attiva nel dibattito, di liberazione dalle convenzioni e di possibilità d’intervento nel mondo con i mezzi che gli sono consentiti: nel mio caso la pittura, l’energia declamatoria e la scrittura, antica passione. Quanto alle mode, l’astrattista è storicamente abbastanza estraneo alle tendenze che vengono dall’esterno e forse più vicino al concetto che l’attualità della lettura del giorno prima debba essere, per sua natura, inattuale.